sabato 22 dicembre 2012

Un vecchio disco con due canzoni natalizie

Tra i vecchi dischi a 45 giri degli anni '60 del XX secolo che ancora conservo, ce n'è uno con due canzoni natalizie: "Tu scendi dalle stelle" e "Bianco Natale". Il disco lo comperò mio padre circa mezzo secolo fa, per ascoltarlo su un giradischi dell'epoca che ricordo ancora bene; infatti anch'io, nei lontani anni '70, mi divertivo a inserire nel caro apparecchio quei dischi che oggi sono decisamenti obsoleti. Erano, quelli, anni in cui la musica si ascoltava, se non alla radio o in TV, soltanto così o, al massimo in un mangianastri. Le due canzoni che ho citato sono tra le più note e tradizionali delle feste natalizie. "Tu scendi dalle stelle" fu scritta e musicata da sant'Alfonso de' Liguori nel XVIII secolo; la composizione musicale, così come il testo, pare che scaturirono di getto al santo quando vide, nel Natale del 1754, il presepe allestito dalla famiglia Zambarelli di Nola. "Bianco Natale" invece è la trasposizione in italiano di "White Christmas", canzone che fu cantata per la prima volta da Bing Crosby, durante uno show radiofonico statunitense nel 1941; questo brano è, ancora oggi, uno dei più acclamati tra quelli dedicati al Natale. L'autore di "White Christmas" è Irving Berlin (1888-1989), compositore americano vissuto per più di cent'anni. Le due canzoni del disco sono eseguite dal Coretto di don Stefano Varnavà e la casa discografica è la Vedette, che tra le altre cose pubblicò, pochi anni dopo l'uscita di questo disco, anche i primi 45 giri dei Pooh.
 
 

TU SCENDI DALLE STELLE
(Alfonso De Liguori)

Tu scendi dalle stelle, o re del cielo,
e vieni in una grotta al freddo, al gelo.
O Bambino mio divino,
io ti vedo qui a tremar.
O Dio beato!
Ah, quanto ti costò l'avermi amato!
A te che sei del mondo il creatore
mancano panni e fuoco, o mio Signore.
Caro eletto Pargoletto,
quanto questa povertà
più m'innamora,
giacché ti fece amor povero ancora.
Tu lasci del tuo Padre il divin seno
per venire a penar su questo fieno.
Dolce amore del mio cuore,
dove amor ti trasportò?
O gesù mio,
per chi tanto patir? Per amor mio!
Ma se fu tuo volere il tuo patire,
perché vuoi pianger poi, perché vagire?
Sposo mio, amato Dio,
mio Gesù, t'intendo sì.
Ah, mio Signore,
tu piangi non per duol, ma per amore.
. . . . .
 
 
 

WHITE CHRISTMAS [Testo originale di "Bianco Natale"]
(Irving Berlin)

I'm dreaming of a white Christmas
Just like the ones I used to know
Where the treetops glisten,
and children listen
To hear sleigh bells in the snow.

I'm dreaming of a white Christmas
With every Christmas card I write
May your days be merry and bright
And may all your Christmases be white.
I'm dreaming of a white Christmas
With every Christmas card I write
May your days be merry and bright
And may all your Christmases be white.



lunedì 10 dicembre 2012

Adeste fideles

"Adeste fideles" è il titolo di uno tra i canti natalizi più belli e più famosi; parlando per me, è certamente il più bello. Non conosciuto come altri, è però facile averlo ascoltato ed ascoltarlo ogniqualvolta si avvicinino le feste natalizie, soprattutto in occasione di concerti tradizionali che vedono come protagonisti i canti di natale più famosi. "Adeste fideles" non ha un autore certo, esistono soltanto varie ipotesi sulla sua paternità: potrebbe essere stato scritto da John of Reading, religioso e musicista inglese del XIV secolo, ma è sicuro che fu trascritto (testo e musica) dal compositore britannico John Francis Wade (1711-1786) tra il 1733 ed il 1744 a Douai, città francese che a quei tempi era un centro cattolico molto importante; la composizione fu eseguita proprio dai cori cattolici del luogo menzionato, e divenne, col tempo, un tradizionale canto natalizio. Per quel che concerne il testo, secondo alcune fonti l'autore sarebbe San Bonaventura (1217-1274), ma è più probabile che invece sia stato scritto da qualche ordine monacale spagnolo o portoghese del XIV secolo. Parlando ancora del testo, è bene ricordare che quello originale fu scritto in latino e si avvale di otto strofe totali, di cui John Francis Wade trascrisse soltanto la I, la V, la VI e la VII; per le rimanenti, si attesta la trascrizione della II, della III e della IV da parte del vecovo, letterato e compositore francese Étienne-Jean-François Borderies (1764-1832) verso lafine del XVIII secolo (1794), mentre la VIII strofa pare che sia stata trascritta da un anonimo in data non nota. Come suggerisce il titolo, il canto si sostanzia in un caldo invito, rivolto ai fedeli da parte, probabilmente, di un angelo, affinché si dirigano in massa a Betlemme, nel luogo in cui sta per nascere Gesù, sì da osservare e devotamente adorare il figlio di Dio appena giunto sulla Terra. Ecco infine le versioni rispettivamente in latino, italiano, inglese e francese del celebre canto "Adeste fideles".
 
 
 
I. LATINO
Adeste fideles læti triumphantes,
venite, venite in Bethlehem.
Natum videte Regem angelorum.
Venite adoremus (ter)
Dominum.

En grege relicto humiles ad cunas,
vocati pastores adproperant,
et nos ovanti gradu festinemus.
Venite adoremus (ter)
Dominum.

Æterni Parentis splendorem æternum,
velatum sub carne videbimus,
Deum infantem pannis involutum.
Venite adoremus (ter)
Dominum.

Pro nobis egenum et fœno cubantem
piis foveamus amplexibus;
sic nos amantem quis non redamaret?
Venite adoremus (ter)
Dominum.
 
 
 
II. ITALIANO
Venite, fedeli, lieti e trionfanti,
venite, venite a Betlemme.
vedete il re degli angeli che è nato.
Venite adoriamo (tre)
il Signore Gesù.

La luce del mondo brilla in una grotta:
la fede ci guida a Betlemme.
Nasce per noi Cristo Salvatore.
Venite adoriamo (tre)
il Signore Gesù.

La notte risplende, tutto il mondo attende:
seguiamo i pastori a Betlemme.
Nasce per noi Cristo Salvatore.
Venite adoriamo (tre)
il Signore Gesù.

Il Figlio di Dio, Re dell’universo,
si è fatto bambino a Betlemme.
Nasce per noi Cristo Salvatore.
Venite adoriamo (tre)
il Signore Gesù.

Sia gloria nei cieli, pace sulla terra
un angelo annuncia a Betlemme.
Nasce per noi Cristo Salvatore.
Venite adoriamo (tre)
il Signore Gesù.
 
 
 
III. INGLESE
O come, all ye faithful,
Joyful and triumphant!
O come ye, O come ye to Bethlehem;
Come and behold him
Born the King of Angels:
Chorus:
O come, let us adore Him,
O come, let us adore Him,
O come, let us adore Him,
Christ the Lord.

God of God,
Light of Light,
Lo, he abhors not the Virgin's womb;
Very God,
Begotten, not created:

Sing, choirs of angels,
Sing in exultation,
Sing, all ye citizens of Heaven above!
Glory to God
In the highest:

Yea, Lord, we greet thee,
Born this happy morning;
Jesus, to thee be glory given!
Word of the Father,
Now in flesh appearing!
 
 
 
IV. FRANCESE
Accourez, fidèles, joyeux, triomphants :
Venez, venez à Bethléem.
Voyez le roi des Anges qui vient de naître.
Venez, adorons,
Venez adorons le Seigneur.

Dociles à la voix céleste,
les bergers quittent leur troupeau
et s'empressent de visiter son humble berceau
Et nous aussi, hâtons-nous d'y porter nos pas.
Venez, adorons,
Venez adorons le Seigneur.

Nous verrons celui qui est la splendeur éternelle du Père,
caché sous le voile d'une chair mortelle;
Nous verrons un Dieu enfant enveloppé de langes
Venez, adorons,
Venez adorons le Seigneur.

Embrassons pieusement ce Dieu devenu pauvre pour nous
et couché sur la paille;
Quand il nous aime ainsi,
Comment ne pas l'aimer à notre tour ?
Venez, adorons,
Venez adorons le Seigneur.

domenica 4 novembre 2012

Lombardia

"Lombardia" è il titolo di una canzone interpretata da Herbert Pagani che, nel 1965, uscì come lato A di un disco a 45 giri nonché in un 33 giri del medesimo anno e del medesimo autore dal titolo: "Una sera con Herbert Pagani". Trattasi di una cover della canzone "Le plat pays" cantata da Jacques Brel nel 1962: uno dei brani migliori del cantautore belga, che grazie a Pagani fu conosciuto anche nel nostro paese. Nella trasposizione in italiano del testo di Brel, la "bassa landa" (così andrebbe tradotto il titolo della canzone), diviene la regione lombarda. In effetti, a parte alcune differenze evidenti e incontestabili, qualche somiglianza tra il Belgio, patria di Brel, e la Lombardia, si può individuare: gli autunni e gli inverni di entrambi i luoghi si caratterizzano per la presenza costante di nebbia e di pioggia; le cattedrali di alcune città belghe possono in parte ricordarne alcune lombarde; sia il Belgio che la Lombardia infine posseggono un territorio pianeggiante, il cui clima è simile se non eguale. C'è comunque da far notare che il testo di Pagani in parte si distanzia da quello di Brel, poichè quest'ultimo è in sostanza una sorta di inno alla terra natale, mentre in Pagani c'è un'esortazione, probabilmente rivolta alla donna amata, affinché vada a vivere nella sua regione di nascita che, pur possedendo caratteristiche non propriamente invitanti, ha anche un suo fascino particolarissimo e invogliante. Dopo "Lombardia" Pagani realizzò altre cover tratte da capolavori di Brel, e si può dire che, escluso Gino Paoli¹, sia stato il primo a far conoscere Brel in Italia. Lo stesso cantautore belga rimase entusiasta delle interpretazioni di Pagani, in particolar modo di quella citata.
 
(1): Paoli fu il primo a cantare in italiano il brano più famoso di Brel: "Ne me quitte pas", che, nell'interpretazione di Paoli del 1962 diventò "Non andare via".
 
 
LOMBARDIA
(H. Pagani - J. Brel)

Qui l'arpa della pioggia per mesi suonerà
ed un'infinità di nebbia scenderà
e vedrai coprirà tutto intorno a noi
e annegherà il tuo cuore anche se non vuoi
percheé d'autunno piove qui e non smette mai
se vieni su da me vedrai ti abituerai
in Lombardia che è casa mia.

Vedrai la cattedrale che sembra una montagna
con mille guglie bianche che la luna bagna
e dei diavoli in pietra che sputano alle stelle
e che graffiano il cielo con gesti di zitelle
son secoli che fanno le stesse smorfie ormai
se vieni su da me vedrai ti abituerai
in Lombardia che è casa mia.

Qui il cielo è così grigio che sembra venga giù
qui il cielo è così basso che insegna l'umiltà
è così grigio che il naviglio annegherà
è così basso che il naviglio non c'è più
il vento qui si invita ai funerali sai
se vieni su da me vedrai ti abituerai
in Lombardia che è casa mia.

Ma quando il primo fiore dal fango nascerà
e fra le ciminiere il pioppo canterà
capirai che a novembre noi dobbiamo pagare
quel che maggio promette e giugno ci può dare
fra i grattacieli e i tram l'estate scoppierà
se vieni su da me vedrai ti piecerà
la Lombardia che è casa mia.


martedì 30 ottobre 2012

Quest'anno il mare

Esistono alcune canzoni che stranamente rimangono nell'oblio pur essendo molto belle; è il caso di "Quest'anno il mare", brano di Luciano Michelini che uscì quale lato B di un disco a 45 giri del 1965. Michelini non è certamente molto conosciuto come cantante, lo è certamente come musicista e forse come autore di colonne sonore e come arrangiatore di canzoni interpretate da personaggi famosi. La canzone citata è secondo me superlativa sia per la musica che per le parole (entrambe di Michelini) capaci di creare un'atmosfera molto malinconica, visto che si parla di un periodo immediatamente successivo alla stagione estiva (forse settembre), quando le prime, forti piogge autunnali portano le acque del mare ad invadere parte della spiaggia, e a volte arrivano anche all'interno delle abitazioni edificate a poca distanza dalla riva. Nel testo di Michelini l'acqua diviene "distruttrice" di un amore ormai consumato, destinato a dissolversi come un castello di sabbia. Nulla ormai rimane di quell'amore estivo, tranne qualche traccia quasi invisibile delle parole intense e passionali scritte sulla rena che il vento cerca invano di recuperare.
 
 
QUEST'ANNO IL MARE
(Luciano Michelini)
 
Quest'anno il mare
s'è spinto molto avanti
e ha cancellato
le orme dell'estate.

La pioggia è entrata
nella tua casa
e lentamente
consuma i miei ricordi.

Rimane solo il vento
che cerca nella sabbia
le ultime parole
che tu dicevi a me.

sabato 27 ottobre 2012

E la città non lo sa

Esistono alcune canzoni di Giorgio Gaber (Milano 1939 - Montemagno di Camaiore 2003) della prima metà degli anni '60 che già preannunciano il futuro cambiamento del cantautore milanese, sempre più indirizzato verso un tipo di canzonetta che non sia soltanto fine a sé stessa ma che racchiuda un significato ed un impegno sociale tale da renderla qualcosa di più concreto e importante. Da questa tendenza sempre più consistente mano mano che Gaber interpretava i suoi brani musicali nel corso del decennio citato, si concretizzerà la svolta avvenuta proprio nel 1970, quando l'autore di "La ballata del Cerutti" e di "Trani a gogò" passerà al "Teatro-canzone" che ha poco a che vedere con la sua produzione discografica precedente. Una delle canzoni che preannunciano la svolta è senz'altro "E la città non lo sa"; fu inserita in un 33 giri del 1964 intitolato "Le canzoni di Giorgio Gaber" e passò quasi totalmente inosservata. Cosa assi ingiusta e inspiegabile, visto il sicuro valore del testo e la non scadente qualità della musica. Il testo parla di una qualunque giornata cittadina cominciando dalle prime ore della mattina, quando lentamente la luce si diffonde sulle case e la gente si avvia ad affrontare le gioie e i dolori quotidiani, per finire con la tarda sera, quando le ultime luci artificiali si vanno spegnendo e i rumori dei motori si diradano sempre più fin quasi a scomparire. È, come ripete più di una volta Gaber, un giorno come un altro, che si va ad aggiungere alla serie infinita di giorni insignificanti che si vivono nelle caotiche città moderne, tra la generale indifferenza di uomini divenuti ormai automi, visto che ripetono le solite azioni quotidiane e non si accorgono minimamente dei drammi, delle forti emozioni e delle pulsioni vitali di chicchesia, totalmente immersi in una esistenza ormai completamente svuotata di significato. Vengono in mente alcuni versi di una bellissima poesia di Camillo Sbarbaro i quali ottimamente descrivono la popolazione che è facile incontrare camminando sulle strade di una città moderna:

«Fronti calve di vecchi, inconsapevoli
occhi di bimbi, facce consuete
di nati a faticare e a riprodursi,
facce volpine stupide beate,
facce ambigue di preti, pitturate
facce di meretrici, entro il cervello
mi s'imprimono dolorosamente.
E conosco l'inganno pel qual vivono,
il dolore che mise quella piega
sul loro labbro, le speranze sempre
deluse,
e l'inutilità della lor vita
amara e il lor destino ultimo, il buio».
 
 
 
E LA CITTA' NON LO SA
(Giorgio Gaber - Renato Angiolini)

Un giorno come un altro
illumina le case si accendono le cose
e la città non lo sa.

Un’ora come un'altra
chi vive per amore chi muore di dolore
chi vive e non lo sa.

Un giorno come un altro
la gente passa e va
e la città non lo sa.

La luce della sera
già muore sulle case si spengono le cose
e la città non lo sa.

Fra poco tutto tace
si muove un po’ di luce sul tram che se ne va
e la città non lo sa.

Un giorno come un altro
la gente passa e va
e la città non lo sa.

giovedì 25 ottobre 2012

Il duomo di Milano

"Il duomo di Milano" è il titolo di una delle canzoni più belle e più struggenti di Enzo Jannaci. Fu inserita dal cantautore milanese nell'LP "La mia gente" (RCA, 1970) che contiene altri capolavori come "Messico e nuvole" e "Il dritto". Questo brano, scritto interamente da Jannacci, possiede un andamento malinconico raramente rintracciabile altrove e va ad aggiungersi ad altri pezzi riconducibili alla medesima tendenza come "La disperazione della pietà", "Giovanni telegrafista" e "Gli zingari", pubblicati da Jannacci più o meno nello stesso periodo. Mai nessuno prima di lui aveva saputo descrivere la città meneghina facendo emergere una sconsolata e irrimediabile tristezza che si avverte dall'inizio alla fine di questa stupenda canzone. Peccato che "Il duomo di Milano" oggi non sia ricordata tra i migliori brani musicali scritti e interpretati dal cantautore milanese.
 


IL DUOMO DI MILANO
(Enzo Jannacci)

Sporge il bancone
di dolci lacrime d'addio
quel giovanotto
malato di ricchezza
ed il garzone
le asciuga ad una ad una
e a casa la sera
se ne innamora.

Han chiuso nella sua tomba
l'acqua del mio canale
han chiuso nella sua tomba
l'acqua del mio canale
s'è lamentato una volta
una volta sola
quando qualcuno lo ha percosso
con una frusta di giornali.

C'è ancora chi pulisce
con l'alcool la sua vetrina
c'è ancora chi pulisce
con l'alcool la sua vetrina
ma non risponde più al tuo saluto
perché t'han cambiato il cervello
perché t'han cambiato il cervello
in Via Lomellina, in Lomellina.

Il duomo di Milano
è pieno d'acqua piovana
Il duomo di Milano
è pieno d'acqua piovana,
ce l'han portata con gli ombrelli
ce l'han portata con i pianti
ce l'han portata con i pianti
per la redenzione delle puttane.

lunedì 27 agosto 2012

"La Stravaganza" di Antonio Vivaldi



"La Stravaganza" è il titolo di un'opera di Antonio Vivaldi, esattamente la n. 4, che comprende 12 concerti per violino, archi e basso continuo. Cronologicamente "La Stravaganza" si pone tra due opere fondamentali e famosissime del musicista veneziano: "L'Estro Armonico" (op. 3, 1711) e "Il Cimento dell'Armonia e dell'Invenzione" (op. 8, 1725) e rappresentano un passo ulteriore in avanti verso quella perfezione del concerto barocco per violino che per Vivaldi sarebbe stata raggiunta proprio coi concerti delle "Quattro Stagioni" (presenti nell'ultima opera citata). Il titolo dell'op. 4 vuole significare l'intenzione, da parte del musicista, di non seguire uno schema prefissato, ma di potersi sbizzarrire a suo piacimento in percorsi alternativi e improvvisati, magari anche strani, ma che comunque privilegiano la libertà e l'estro del compositore su tutto il resto. I 12 concerti de "La Stravaganza" sono strutturati quasi tutti per uno strumento principe, in questo caso il violino.
 
 
 
 
ANTONIO VIVALDI (1678-1741)

La Stravaganza (op. 4)
 
 
 
Concerto N° 1 in B flat major, RV 383a

1. Allegro
2. Largo
3. Allegro
 

Concerto N° 2 in E minor, RV 279

1. Allegro
2. Largo
3. Allegro
 

Concerto N° 3 in G major, RV 301

1. Allegro
2. Largo
3. Allegro Assai
 

Concerto N° 4 in A minor, RV 357

1. Allegro
2. Grave
3. Allegro
 

Concerto N° 5 in A major, RV 347

1. Allegro
2. Largo
3. Allegro
 

Concerto N° 6 in G minor, RV 316a

1. Allegro
2. Largo
3. Allegro
 

Concerto N° 7 in C majior, RV 185

1. Largo
2. Allegro
3. Largo
4. Allegro
 

Concerto N° 8 in D minor, RV 249

1. Allegro - Adagio - Presto - Adagio
2. Allegro
 

Concerto N° 9 in F major, RV 284

1. Allegro
2. Largo
3. Allegro
 

Concerto N° 10 in C minor, RV 196

1. Spirituoso
2. Adagio
3. Allegro
 

Concerto N° 11 in D major, RV 204

1. Allegro
2. Largo
3. Allegro assai
 

Concerto N° 12 in G major, RV 298

1. Spirituoso e non presto
2. Largo
3. Allegro


domenica 26 agosto 2012

Suona chitarra

Quando Giorgio Gaber cantava la sua bellissima "Suona chitarra" era il 1967, e già aveva in mente, probabilmente, di dare una netta svolta al suo modo di presentarsi al pubblico. Il testo della canzone citata, a tal proposito è più chiarificatorio che mai: Gaber ci mise dentro tutta la sua rabbia per non poter cantare le cose a cui teneva di più, per non esternare i suoi pensieri su argomenti importantissimi ma che, allora, non potevano e non dovevano essere trattati in una canzonetta, pena la censura che troppo spesso colpì proprio le canzoni di Gaber, in molti casi "vietate" e quindi mai trasmesse sia in radio che in TV. Canzoni sulle quali, a chiunque le ascolti oggi per la prima volta, verrebbe da chiedersi il motivo di tali divieti. D'altra parte Gaber all'epoca non era certo l'unico ad avere questo tipo di trattamento: altri cantautori famosi come Fabrizio De André e Luigi Tenco infatti subirono tagli netti e inappellabili alle loro canzoni da parte della censura che imperversava nella Rai già dalla sua nascita. Tornando al testo di Gaber, si tratta sostanzialmente di uno sfogo atto a porre in risalto il desiderio del cantautore milanese di non esibirsi davanti a un pubblico col solo intento di divertirlo, ma di farlo in modo nuovo e utile, magari parlando di problemi attuali, denunciando le cose sbagliate della società, criticando i politici o qualsivoglia categoria che non si comporta bene. Insomma Gaber non voleva più fare sempre e comunque il "giullare di corte" moderno, che ha solo il compito di intrattenere per un po' di tempo la folla, intendeva creare un rapporto differente e costruttivo con gli ascoltatori, affinché, grazie alle sue canzoni, la gente cominciasse a riflettere sulla realtà delle cose, e magari potesse nascere una discussione e quindi delle iniziative per poter migliorare quello che non va. Certo è che il finale di "Suona chitarra" non incoraggia, visto che Gaber pare si rassegni a dover "fare il pagliaccio", e con rabbia disperata debba continuare in eterno a suonare quella chitarra divenuta ormai strumento inutile che riproduce un suono sempre più sgradevole e incalzante, rancoroso verso quella massa enorme di pubblico che ama soltanto il frastuono e il vuoto. La canzone "Suona chitarra" apparve per la prima volta in un disco a 45 giri del 1967, e poi, l'anno seguente, come 3° traccia del lato B di "L'asse d'equilibrio", album tra i migliori di Giorgio Gaber che comprende altre canzoni indimenticabili come "Un uomo che dal monte" e "Eppure sembra un uomo". 



SUONA CHITARRA
(Federico Monti Arduini - Giorgio Gaber - Renato Angiolini)

Se potessi cantare davvero
canterei veramente per tutti,
canterei le gioie ed i lutti
e il mio canto sarebbe sincero.
Ma se canto così io non piaccio,
devo fare per forza il pagliaccio!
E allora...
Suona chitarra, falli divertire,
suona chitarra, non farli mai pensare
al buio, alla paura,
al dubbio, alla censura,
agli scandali, alla fame,
all’uomo come un cane
schiacciato e calpestato.
E allora...
Suona chitarra, falli divertire,
suona chitarra, non farli mai pensare,
suona chitarra mia...
E tutti in allegria.
Se potessi cantare io sento
che sarei veramente contento
ed il canto sarebbe qualcosa,
la chitarra sarebbe una sposa.
Ma io debbo soltanto piacere,
divertire la gente e scherzare!
E allora...
Suona chitarra, suona i tuoi accordi,
suona più forte, che si diventi sordi;
tutto è già passato,
è gia dimenticato
e solo chi oggi è buono
domani avrà il perdono:
il foglio del condono!
E allora...
Suona chitarra, falli divertire,
suona chitarra, non farli mai pensare
suona chitarra ancora...
E tutti alla malora!
E allora...
Suona chitarra, falli divertire,
suona chitarra, non farli mai pensare,
suona chitarra, forte i tuoi accordi,
suona più forte, che si diventi sordi,
suona chitarra, suona chitarra, suona chitarra...

venerdì 24 agosto 2012

La musica di Johannes Brahms



La musica di Johannes Brahms (Amburgo 1833 – Vienna 1897) possiede un fascino molto particolare, che tende senza dubbio a una sorta di nostalgia per la musica dei secoli precedenti all'Ottocento. Quella del musicista di Amburgo è infatti un'opera largamente rivolta al passato (soprattutto a Bach), ma comunque di espressione romantica. Di certo meno famosa della musica orchestrale, la musica da camera e il lied vi occupano un posto di prim'ordine.
Penso non vi siano dubbi sul fatto che il brano più bello della musica di Brahms sia da ritenersi il terzo movimento (Poco Allegretto) della Sinfonia n. 3, la cui melodia, di una grazia incomparabile, suscita un profondo e piacevolissimo sentimento malinconico. Ecco infine alcune tra le opere musicali più famose di Johannes Brahms.



Musica per pianoforte

Danze ungheresi (1852-1869)
Valzer op. 39 (1865)
Fantasia op. 116 (1892)
Tre intermezzi op. 117 (1892)
Pezzi per pianoforte op. 118 e 119 (1893)



Musica per orchestra

Concerto per pianoforte in re minore op. 15 (1858)
Variazioni su un tema di Haydn op. 56 (1873)
Sinfonia in re maggiore op. 73 (1877)
Concerto per violino e orchestra in re maggiore op. 77 (1878)
Overture accademica in do minore op. 80 (1880)
Overture tragica in re minore, op 81 (1880)
Concerto per pianoforte in si bemolle maggiore op. 83 (1881)
Sinfonia in fa maggiore op. 90 (1890)


Musica da camera

Sonata per violoncello e pianoforte op. 38 (1865)
Sonata per violino e pianoforte op. 78 (1789)
Sonata per violoncello e pianoforte op. 99 (1886)
Sonata per violino e pianoforte op. 100 (1886)
Sonata per violino e pianoforte op. 108 (1888) 
2 sonate per clarinetto e pianoforte op. 120 (1894)



Musica vocale

Requiem tedesco, per due voci soliste, coro e orchestra (1868)
Rapsodia, per contralto, coro maschile e orchestra (1869).


martedì 21 agosto 2012

Tomaso Albinoni: "12 concerti per violino, archi e cembalo" (op. 10)

Nel 1735, anno di uscita dei "12 Concerti" che formano l'Opera 10 di Tomaso Albinoni, erano ormai passati quindici anni dall'ultima pubblicazione di Concerti da parte del musicista veneziano (L'Opera 9 risale infatti al 1922). Eppure, proprio a quel tempo, l'editore Michel-Charles Le Cène di Amsterdam aveva fatto circolare per un po' di tempo la notizia di una nuova imminente pubblicazione: i 12 concerti dell'Opera 10 di Albinoni.
Questi concerti segnano così il confine di un quarantennio di attività straordinaria da parte di Albinoni, che racchiude anche il meglio della musica venziana e del concerto barocco. Aveva iniziato a pubblicare la sua musica alla fine del XVII secolo definendosi un "Musico di violino, dilettante veneto", dimostrandosi in tal modo assai modesto. All'inizio del Settecento, entrò di diritto a far parte dell'élite di quella Musica del Barocco veneziano che comprendeva nomi illustri o meno come Antonio Vivaldi, Antonio Lotti, Giovanni Legrenzi, Carlo Francesco Pollarolo, Francesco Gasparini, i fratelli Alessandro e Benedetto Marcello e tanti altri. Fu proprio Albinoni, insieme a Vivaldi, a portare in auge dapprima il concerto grosso e poi il concerto in stile italiano (che prevede i tre movimenti Allegro - Adagio - Allegro), nonchè il concerto ad un solo strumento; di quest'ultimo anzi, si può ben dire che ne fu l'inventore, come dimostra l'Opera 2, dove, nei 6 concerti a 5, un violino ricopre il ruolo principe. Gli ultimi concerti ascoltabili nell'Op. 10, mostrano che Albinoni rimase fedele alla sua linea musicale, pur apportando alcune varianti al suo modo di comporre: elementi di una evoluzione sovente vicina alle nuove generazioni, fautrici di una musica ormai a metà tra barocco e classicismo si nota in questi concerti godibilissimi, che sanciscono la fine di una carriera strepitosa.
 
 
 
Tomaso Albinoni (1671-1751)
DODICI CONCERTI OP. 10 PER VIOLINO, ARCHI E CEMBALO
 

CONCERTO No. 1
B flat major

1. Allegro
2. Adagio
3. Allegro
 

 
CONCERTO No. 2
G minor

1. Allegro
2. Andante
3. Allegro
 
 

CONCERTO No. 3
C major

1. Allegro
2. Adagio
3. Allegro
 

 
CONCERTO No. 4
G major

1. Allegro
2. Andante
3. Allegro
 

 
CONCERTO No. 5
A major


1. Allegro
2. Andante
3. Allegro
 
 

CONCERTO No. 6
D major

1. Allegro
2. Larghetto
3. Allegro
 
 

CONCERTO No. 7
F major

1. Allegro
2. Andante
3. Allegro
 

 
CONCERTO No. 8
G minor

1. Allegro
2. Largo
3. Allegro
 

 
CONCERTO No. 9
C major

1. Allegro
2. Larghetto
3. Allegro
 

 
CONCERTO No. 10
F major

1. Allegro
2. Larghetto
3. Allegro
 

 
CONCERTO No. 11
C major

1. Allegro
2. Larghetto
3. Allegro
 
 

CONCERTO No. 12
B flat major

1. Allegro
2. Adagio
3. Allegro.


lunedì 20 agosto 2012

I patrioti della Maiella

Siamo i patrioti della Montagna,
i disperati senza più tetto,
senza famiglia, senza campagna,
col cuore a brani nel nudo petto.


 Ma il cuor non è distrutto,
 o razza maledetta,
 e invoca dal Dio pel suo lutto
 il pugnal della vendetta.


Tutto ci han tolto, mèsse e bestiame,
badili e vesti, casa e paese;
hanno lordate le nostre chiese,
sputato sopra la nostra fame.


 Ma il cuor non è distrutto,
 o razza maledetta,
 e invoca dal Dio pel suo lutto
 il pugnal della vendetta.


Ormai per letto nulla ci resta
che neve e fango lungo i fossati;
e per guanciale sotto la testa
l'ossa dei nostri figli ammazzati.


 Ma il cuor non è distrutto,
 o razza maledetta,
 e invoca dal Dio pel suo lutto
 il pugnal della vendetta.


[Da "Le Cinque Guerre (1911-1945). Poesie e canti italiani" a cura di Renzo Laurano e Gaetano Salveti, Nuova Accademia Editrice, Milano 1965]


"I patrioti della Maiella" è un canto della Resistenza italiana scritto da Alfredo Piccioni. Il testo altro non è che uno sfogo risentito e disperato della gente che, aggredita dai nazifascisti, ovvero da coloro che hanno saccheggiato e distrutto case, ucciso e deportato persone innocenti, umiliato e insozzato ogni cosa pura e buona: ha deciso di combattere con grande coraggio la estrema prepotenza e l'inaudita violenza degli invasori e nello stesso tempo di vendicare tutte le malefatte subite dalla popolazione inerme. Sono i partigiani abruzzesi conosciuti come "Brigata Majella", dal nome del massiccio montuoso omonimo presso cui si riunirono i combattenti. La Brigata Majella fu uno dei gruppi più valorosi tra quelli dei partigiani, venne infatti decorata di Medaglia d'Oro al Valore Militare alla bandiera. Fu attiva tra 1943 ed il 1945, e diede un contributo notevole alla liberazione di Marche, Emilia-Romagna e Veneto. 

domenica 19 agosto 2012

Pauvre Martin

"Pauvre Martin" è il titolo di una canzone di Georges Brassens (Sète 1921 – Saint-Gély-du-Fesc 1981), che il cantautore francese pubblicò all'interno del suo secondo album uscito nel 1954: "Les Amoureux des bancs publics". È a mio parere uno dei brani musicali più toccanti e più belli di Brassens; parla di un pover uomo che passa la vita intera in solitudine a lavorare i campi, senza mai lamentarsi e senza mai disturbare nessuno. Dopo una vita di duro lavoro, sofferenze e stenti, quando capisce che sta per giungere la sua ora, senza dir niente ad alcuno prende la sua vanga (unica compagna della sua esistenza) e va a scavarsi la fossa per poi attendere l'arrivo della morte. È uno dei casi in cui la canzone d'autore (ai suoi antipodi) si occupa degli ultimi: i diseredati della Terra, coloro che vivono un'esistenza marginale e, per sopravvivere, sono costretti a fare lavori massacranti e miseramente retribuiti; eppure, alcuni di essi posseggono una umiltà e una mitezza che sbalordiscono: non si ribellano rabbiosamente al triste destino che gli è capitato, ma, rassegnati ad esso, lo sopportano stoicamente, fino al giorno della loro morte, senza mai un lamento, senza una supplichevole richiesta d'aiuto. La loro immensa dignità, il loro invidiabile coraggio e la loro forza di sopportazione li rendono degli eroi misconosciuti, e soltanto le menti eccelse (come quella di Brassens) si rendono conto della loro esistenza che molto ha a che fare con la santità.
La canzone "Pauvre Martin" fu tradotta in dialetto milanese e cantata da Nanni Svampa (nuovo titolo: "Poer Martin") che la incluse come terza traccia del suo Lp "Nanni Svampa canta Brassens" (1964). Fu quindi Beppe Chierici che la cantò in italiano col titolo "Tristo Martino" e l'inserì nell'album "Chierici canta Brassens" (1969). Ecco allora il testo di Brassens e, di seguito, quello di Beppe Chierici.
 
 
 
PAUVRE MARTIN
(G. Brassens)

Avec une bêche à l'épaule,
Avec, à la lèvre, un doux chant,
Avec, à la lèvre, un doux chant,
Avec, à l'âme, un grand courage,
Il s'en allait trimer aux champs!
Pauvre Martin, pauvre misère,
Creuse la terre, creuse le temps!
Pour gagner le pain de sa vie,
De l'aurore jusqu'au couchant,
De l'aurore jusqu'au couchant,
Il s'en allait bêcher la terre
En tous les lieux, par tous les temps!
Pauvre Martin, pauvre misère,
Creuse la terre, creuse le temps!
Sans laisser voir, sur son visage,
Ni l'air jaloux ni l'air méchant,
Ni l'air jaloux ni l'air méchant,
Il retournait le champ des autres,
Toujours bêchant, toujours bêchant!
Pauvre Martin, pauvre misère,
Creuse la terre, creuse le temps!
Et quand la mort lui a fait signe
De labourer son dernier champ,
De labourer son dernier champ,
Il creusa lui-même sa tombe
En faisant vite, en se cachant...
Pauvre Martin, pauvre misère,
Creuse la terre, creuse le temps!
Il creusa lui-même sa tombe
En faisant vite, en se cachant,
En faisant vite, en se cachant,
Et s'y étendit sans rien dire
Pour ne pas déranger les gens...
Pauvre Martin, pauvre misère,
Dors sous la terre, dors sous le temps!
 

 
 
TRISTO MARTINO
(G. Brassens - B. Chierici)

Con una vanga sulla spalla
e sulle labbra una canzon,
e sulle labbra una canzon,
e con nel cuor un gran coraggio
nei campi andava a lavorar.
Tristo Martino, triste miseria,
scava la terra e tira a campar.
Per guadagnarsi un po' di pane
dall'alba fino al tramontar,
dall'alba fino al tramontar,
in ogni luogo e ogni stagione
mai non smetteva di vangar.
Tristo Martino, triste miseria,
scava la terra e tira a campar.
Senza tradire sul suo viso
l'aria di chi voglia invidiar,
l'aria di chi voglia invidiar,
il campo altrui lui continuava
sempre a vangar, sempre a vangar.
Tristo Martino, triste miseria,
scava la terra e tira a campar.
Gli fece segno un dì la morte
l'ultimo acro di vangar,
l'ultimo acro di vangar,
scavò lui stesso la sua tomba
per non doverlo domandar.



venerdì 17 agosto 2012

Lo "Stabat Mater"

Lo "Stabat Mater" è una sequenza liturgica che trae le sue origini da una preghiera, o meglio una sequenza cattolica che, probabilmente, fu scritta da Jacopone da Todi alla fine del XIII secolo. Il testo della preghiera, in latino medievale, inizialmente descrive le sofferenze provate da Maria durante la crocifissione e la Passione del figlio Gesù; quindi colui che prega si rivolge alla Vergine Maria affinché possa renderlo partecipe delle sue sofferenze e di quelle del Cristo.
Lo "Stabat Mater" prima della riforma liturgica era usato durante l'uffico del venerdì santo e soprattutto durante la Via Crucis. Oggi viene eseguito in occasione della messa dell'Addolorata, che si svolge il 15 di settembre.
Musicalmente parlando, lo "Stabat Mater" nacque in forma di melodia gregoriana strutturata in sequenza, all'inizio del XVI secolo. Dopo il Concilio di Trento (1545-1563) fu abrogato, per poi essere reinserito all'interno della liturgia nel 1717, da papa Bendetto XIII.
Molti illustri musicisti composero ed eseguirono lo "Stabat Mater"; tra i più famosi si possono citare Alessandro Scarlatti, Giovanni Battista Pergolesi, Antonio Vivaldi, Franz Joseph Haydn, Gioacchino Rossini e Giuseppe Verdi. Non ci sono dubbi però, sul fatto che lo "Stabat Mater" più bello e conosciuto, sia quello composto da Pergolesi. Il musicista marchigiano lo finì poco prima di morire; gli era stato commisionato infatti nel 1735 dalla laica confraternita napoletana dei Cavalieri della Vergine dei Dolori di San Luigi al Palazzo, per officiare alla liturgia della Settimana Santa. Ecco, di seguito, il testo latino dello "Stabat Mater".
 
 
 
Stabat Mater dolorosa
Iuxta crucem lacrimosa
Dum pendebat Filius

Cuius animam gementem,
contristatam et dolentem
pertransivit gladius.

O quam tristis et afflicta
fuit illa benedicta,
mater Unigeniti!

Quae maerebat et dolebat,
pia Mater, dum videbat
nati poenas inclyti.

Quis est homo qui non fleret,
matrem Christi si videret
in tanto supplicio?

Quis non posset contristari
Christi Matrem contemplari
dolentem cum Filio?


Pro peccatis suae gentis
vidit Iesum in tormentis,
et flagellis subditum.

Vidit suum dulcem Natum
moriendo desolatum,
dum emisit spiritum.


Eia, Mater, fons amoris
me sentire vim doloris
fac, ut tecum lugeam.


Fac, ut ardeat cor meum
in amando Christum Deum
ut sibi complaceam.


Sancta Mater, istud agas,
crucifixi fige plagas
cordi meo valide.

Tui Nati vulnerati,
tam dignati pro me pati,
poenas mecum divide.


Fac me tecum pie flere,
crucifixo condolere,
donec ego vixero.


Iuxta Crucem tecum stare,
et me tibi sociare
in planctu desidero.

Virgo virginum praeclara,
mihi iam non sis amara,
fac me tecum plangere.

Fac, ut portem Christi mortem,
passionis fac consortem,
et plagas recolere.


Fac me plagis vulnerari,
fac me Cruce inebriari,
et cruore Filii.

Flammis ne urar succensus,
per te, Virgo, sim defensus
in die iudicii.


Christe, cum sit hinc exire,
da per Matrem me venire
ad palmam victoriae.


Quando corpus morietur,
fac, ut animae donetur
paradisi gloria. Amen.