sabato 31 marzo 2012

"Hop hop somarello" di Paolo Barabani

Chissà quanti ricordano ancora Paolo Barabani (Argenta 1953), cantautore italiano che nell'ormai lontano 1981 partecipò al Festival di Sanremo con il brano "Hop hop somarello" riscuotendo un discreto successo. Successo che continuò per l'intero anno in cui Barabani pubblicò un 33 giri ed un altro singolo, intitolato "Buon Natale". "Hop hop somarello" è una bella canzone che parla di Gesù, gli autori, oltre all'interprete, sono Enzo Ghinazzi (in arte Pupo) e Gian Piero Reverberi. Come s'intuisce dal titolo, il testo ricostruisce l'atmosfera festosa della Domenica delle Palme, ovvero del giorno in cui Gesù fece il suo ingresso trionfante in Gerusalemme: mentre il Messia si avviava, in groppa ad un somarello, verso la popolazione, questa lo invocava e, innalzando rami di palme e di olivi (simboli di pace), gridava: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore». Era, allora, il periodo della pasqua, e per tal motivo la Domenica delle Palme cade esattamente una settimana prima della santa Pasqua. Ritornando al testo, tralasciando alcune coloriture un po' esagerate e forse irrispettose (Gesù viene descritto come "un'artista non cantante di novelle"), è a mio avviso veritiera la parte che recita esattamente: «Costui parla della pace: / muoia sulla croce!»; infatti Gesù, al di fuori della sua figura divina, è stato soprattutto un portatore di pace, con le sue azioni e con le sue parole, in nome di un messaggio di fratellanza universale e di un abbattimento di qualsivoglia barriera scaturita da differenze di ceto sociale o di razza. Un uomo così rivoluzionario non si era mai visto sulla faccia della terra, per questo fu considerato un sovversivo e fu deciso di farlo tacere per sempre. La canzone di Barabani è l'ennesima sull'argomento "Gesù", giunge infatti dopo quelle di autori prestigiosi che, a cominciare dagli anni '60, vollero parlare del Cristo in modo diverso rispetto a come veniva fatto nella musica sacra. Cominciò (tanto per cambiare) Fabrizio De Andrè a sottolineare la figura di Gesù "uomo" in canzoni come "Si chiamava Gesù" (1968) e "Via della croce" (1970); furono poi i cantautori romani a proseguire e sviluppare il discorso iniziato da De Andrè, nacquero così brani come "A Cristo" (1974) di Antonello Venditti, "Gesù caro fratello" (1977) di Claudio Baglioni e "Gesù bambino" (1979) di Francesco De Gregori. Nei testi di queste canzoni, come in quello di "Hop hop somarello", emerge l'aspetto più umano e più sociale di Gesù: la ricerca della fraternità, l'invito ad amarsi e a non odiarsi, il ripudio per ogni tipo di guerra e l'innalzamento dei poveri, dei derelitti e dei diseredati sancito dalle sue parole inestinguibili: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio».
 

 
HOP HOP SOMARELLO
(Paolo Barabani - Enzo Ghinazzi - Gian Piero Reverberi)


Lento lento sulla strada di Gerusalemme,
sulla sella di un somaro
viene l'uomo di Betlemme.
E' un gran santo, un mendicante,
un pellegrino, un gran furfante,
un'artista non cantante di novelle.

Hop hop hop somarello,
trotta trotta, il mondo è bello.
Hop hop hop somarello,
trotta trotta, tu porti l'agnello.

I miracoli li fa da sé con le sue mani,
ma qualcuno per tre volte
lo rinnegherà domani.
Questo è Pietro il pescatore,
poi c'è Giuda il traditore,
tutti amici finché si raccoglie gloria e onore.
Ma c'è un prezzo per l'amore:
tre monete d'oro.
No no no.

Hop hop hop somarello,
trotta trotta, il mondo è bello.
hop hop hop somarello...

Sulla piazza l'han portato
al giudizio di Pilato,
«Chi sarà questo pezzente?»
«Questo uomo è innocente!»
«Per Barabba hanno votato
ed il Cristo han condannato,
ed il sangue suo ricada sulla nostra gente».
«Costui parla della pace:
muoia sulla croce!».

Hop hop hop somarello,
trotta trotta, il mondo è bello...
 
 
 
 
 
 

martedì 27 marzo 2012

Tutti gli amori

"Tutti gli amori" è il titolo di una canzone interpretata da Michele Straniero (1936-2000) in un disco del lontano 1958. Si tratta precisamente di un 45 giri intitolato "Cantacronache 2" e che contiene in tutto quattro canzoni, due di Michele Straniero e due di Fausto Amodei. "Tutti gli amori" è la seconda canzone del lato B. Gli autori del brano sono Franco Fortini (per il testo) e Sergio Liberovici (per la musica). L'interprete è stato un cantautore, un poeta, uno studioso di musica ed un giornalista italiano, oggi dimenticato ingiustamente, che contribuì in maniera determinante al rinnovamento della musica pop italiana, anticipando i modi e i temi di quella che sarebbe stata in seguito definita la "Canzone d'autore". Insieme a lui, nel medesimo contesto, è giusto citare anche i nomi di Fausto Amodei (che compare con le sue canzoni nel disco menzionato) e Sergio Liberovici; costoro, insieme ad altri musicisti, nel 1957 si unirono fondando il gruppo "Cantacronache" che si riproponeva di modificare drasticamente la "canzonetta", rendendola più nobile e profonda, grazie all'immissione di testi importanti, che trattassero temi di attualità, di politica o comunque di problemi sociali e, per quanto riguarda la musica, basandosi sulla tradizione dei canti popolari e sulle ballate. In parte il gruppo fu influenzato dall'opera di alcuni chansonnier francesi (Georges Brassens soprattutto), ma la vera, sostanziale novità consistette nei testi, che spesso furono scritti da personaggi noti della letteratura italiana come Franco Fortini, Gianni Rodari, Italo Calvino e Umberto Eco. Cantacronache terminò la sua attività nel 1962, e, dalle sue ceneri nacque un altro gruppo fondato da Michele Straniero e da Fausto Amodei: "Nuovo Canzoniere Italiano".
"Tutti gli amori" è una delle canzoni più belle nate dall'esperienza di Cantacronache: parla di amore e di lavoro, accomunati come se nascessero entrambi dalla stessa passione, che all'inizio sembra inattaccabile e che, col tempo, mostra invece tutta la sua precarietà. Probabilmente il testo vuole riferirsi alle vicende italiane del secondo dopoguerra: dopo l'entusiasmo iniziale in cui si pensava fosse possibile creare una nazione nuova e senza ingiustizie, in cui la libertà divenisse il valore più importante e più presente, col passare degli anni tali entusiasmi si sono affievoliti e chi ha preso il potere lo applica in modo sbagliato, non garantendo né la libertà né il lavoro; tradendo quindi i nobili ideali sbandierati ai quattro venti, che gli avevano permesso di raggiungere i massimi posti di comando della nazione. C'è però una nota di ottimismo, presente alla fine di ogni strofa del testo, perché, se un amore o un ideale si sono dimostrati veritieri, anche per un breve periodo, esiste la possibilità che divengano duraturi. Visto che già alcuni individui hanno assaporato e assaporano il gusto della libertà e del lavoro per tutti, è facile che trasmettano ad altri (le generazioni future) le sensazioni e i sentimenti che hanno provato loro. Colpisce la data di uscita di questa canzone: il 1958, ovvero l'anno in cui al Festival della canzone italiana di Sanremo trionfava Domenico Modugno con "Nel blu dipinto di blu", pezzo che poi avrebbe spopolato anche all'estero e che molti ritengono che rappresenti il primo esempio di canzone d'autore italiana; ignorando perciò il fatto che già da un anno esistesse il gruppo di Cantacronache e che proprio in quell'anno avesse cominciato a pubblicare dei dischi veramente rivoluzionari, molto di più rispetto al pur bravo Modugno. Due parole è giusto spenderle anche per l'autore del testo di "Tutti gli amori": lo scrittore Franco Fortini (1917-1994), poeta insigne del Novecento, autore di memorabili raccolte come "Una facile allegoria" (1954), "Poesia e errore" (1959) e "Questo muro" (1973).
 


TUTTI GLI AMORI
(Franco Fortini - Sergio Liberovici)

Io non avrei creduto mai
che un giorno t'avrei vista senza gioia.
Tu non avresti mai creduto
che un giorno avrei vissuto senza te.
Nulla rimane eguale,
si muta il bene in male,
si muta il bianco in nero
ma quel che è stato vero sempre ritornerà.


Tutti gli amori cominciano bene:
l'amore di una donna,
l'amore di un lavoro,
e anche l'amore per la libertà.
Spesso gli amori finiscono male:
chi tanto amò va via,
lavoro è servitù,
la libertà diventa una bugia...
Ma non si perde più
quel che è stato vero
un anno un giorno:
altri nel mondo si vorranno bene,
altri lavoreranno senza pene,
altri vivranno in libertà.

Io non avrei creduto mai
di rivedere il popolo ingannato.
Tu non avresti mai creduto
che chi ci sfrutta insegni la virtù.
Nulla rimane eguale:
si muta il bene in male,
si muta il bianco in nero,
ma quel che è stato vero sempre ritornerà.

Tutti gli amori cominciano bene:
l'amore di una donna,
l'amore di un lavoro,
e anche l'amore per la libertà.
Spesso gli amori finiscono male:
chi è amato non sa amare,
lavora chi tradì
la libertrà è di chi la può comprare.
Ma ricomincia qui,
quel che è stato vero
un nostro giorno.
Tanti ne mondo già si voglion bene,
tanti lavoran già senza più pene,
tanti già ridon nella libertà.

sabato 24 marzo 2012

"La Primavera" di Antonio Vivaldi

Il concerto "La Primavera" di Antonio Vivaldi (Venezia 1678 - Vienna 1741), è uno dei dodici contenuti nell'opera complessiva intitolata: "Il Cimento dell'Armonia e dell'Inventione" (op. VIII, 1725) ed è il primo di quelli raggruppati sotto la dicitura "Le Quattro Stagioni". Si tratta di uno dei concerti più famosi (e anche più belli) del musicista veneziano, giunto, con queste composizioni musicali, nel pieno del suo periodo di massima espressività.
"La Primavera" è un concerto in Mi maggiore per violino, archi e basso continuo che si struttura in tre movimenti: Allegro - Largo - Allegro, ai quali corrispondono tre momenti particolari vissuti durante una giornata primaverile. Per meglio descrivere tali momenti, riporto il sonetto che ha il medesimo titolo del concerto, e che fu scritto dal musicista veneziano, così come gli altri tre, ognuno corrispondente ad una specifica stagione, che completano questa memorabile opera di musica sinfonica.

Giunt' è la Primavera e festosetti
La Salutan gl' Augei con lieto canto,
E i fonti allo Spirar de' Zeffiretti
Con dolce mormorio Scorrono intanto:

Vengon' coprendo l'aer di nero amanto
E Lampi, e tuoni ad annuntiarla eletti
Indi tacendo questi, gl' Augelletti;
Tornan' di nuovo al lor canoro incanto:

E quindi sul fiorito ameno prato
Al caro mormorio di fronde e piante
Dorme 'l Caprar col fido can' à lato.

Di pastoral Zampogna al suon festante
Danzan Ninfe e Pastor nel tetto amato
Di primavera all' apparir brillante.

martedì 20 marzo 2012

Il primo giorno di primavera

"Il primo giorno di primavera" è il titolo di una canzone dei Dik Dik risalente al 1969. È una delle migliori canzoni del complesso italiano, bella è la melodia così come il testo, ma ancor più bella e coinvolgente è l'atmosfera malinconica che è capace di evocare. Il testo parla di ciò che prova un giovane uomo che è stato abbandonato dalla sua fidanzata proprio nel giorno dell'equinozio primaverile, nel giorno, cioè, in cui si festeggia la rinascita della natura e fa il suo ingresso ufficiale la stagione primaverile. Mentre tutto, intorno, sembra che ispiri allegria e felicità e agli occhi dei cittadini si aprono piccoli spettacoli offerti dai prati rigogliosi e dai fiori da poco sbocciati, l'uomo ha in mente solo tristi pensieri, che fanno riferimento alla perdita, ormai definitiva, della sua amata ragazza. Prestigiosi sono i nomi degli autori del brano: sia per quel che concerne le musiche, scritte da Mario Lavezi e Renato Serio, sia per il testo, di Mogol e Cristiano Minellono.
Il brano, che fu interpretato anche da Vanna Brosio, fu inserito in un 45 giri dei Dik Dik pubblicato nell'estate del '69; ai primi di settembre il disco entrò nei primi dieci posti della Hit Parade italiana, e, ai primi di ottobre, raggiunse la vetta, che mantenne per due settimane.
 
 

IL PRIMO GIORNO DI PRIMAVERA
(M. Lavezzi - R. Serio - Mogol - C. Minellono)
 
È quasi giorno ormai
e non ho tra le braccia
che il ricordo di te
ma è tardi, devo correre,
non c'è tempo per piangere.
Salgo sopra un autobus
mentre guardo la gente e
mi domando perché
mi sembrano tante nuvole
che nascondono te.
È il primo giorno di primavera
ma per me è solo il giorno
che ho perso te.
Qui, in mezzo al traffico,
c'è un pezzetto di verde
ed io mi chiedo perché,
mentre nasce una primula,
sto morendo per te.
È il primo giorno di primavera
ma per me è solo il giorno
che ho perso te.

domenica 18 marzo 2012

I giardini di marzo

"I giardini di marzo" è senz'altro una delle canzoni migliori del formidabile duo Mogol - Battisti. Uscita nel maggio 1972 come lato A di un singolo e come prima traccia del'album intitolato "Umanamente uomo: il sogno" (entrambi interpretati da Lucio Battisti) raggiunse ben presto le vette delle Hit Parade italiane dei dischi più venduti, rimanendovi per lungo tempo. Ciò che colpisce del brano è certamente la musica, dai toni prettamente malinconici, ma l'interpretazione di Battisti non è certo da trascurare, infatti il cantautore laziale qui dà il meglio di se in quanto a partecipazione emozionale, trasmettendo un pathos ritrovabile forse soltanto in un'altra sua canzone da ricordare, uscita qualche anno prima di questa: "Io vivrò". C'è poi un testo grandioso, che rimane in mente quasi per intero. Racconta le sensazioni di un ragazzo incapace di vivere e di reagire ad una sorta di apatia che lo opprime. Malgrado le esortazioni di una persona a lui molto vicina (forse la sua fidanzata) e gli impulsi offerti dalla natura che a marzo si mostra in tutto il suo splendore, il ragazzo, come ammette lui stesso, non trova il coraggio di vivere e rimane a guardare il mondo dal di fuori; vengono in mente, a tal proposito, dei bellissimi versi di Guido Gozzano tratti da "I colloqui": «Non vivo. Solo, gelido, in disparte, | sorrido e guardo vivere me stesso». In realtà Mogol affermò, in un suo libro, di avere scritto il testo ripensando ad una sua vicenda personale, vissuta nel periodo dell'immediato dopoguerra, quando era ancora un bambino. Comunque sia, rimane il fatto che la canzone è formidabile, tra le più belle di sempre.
 
 
I GIARDINI DI MARZO
(Mogol - Lucio Battisti)

Il carretto passava e quell'uomo gridava: "gelati!"
al ventuno del mese i nostri soldi erano già finiti.
Io pensavo a mia madre e rivedevo i suoi vestiti:
il piu' bello era nero coi fiori non ancora appassiti.
All'uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri
io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli
poi sconfitto tornavo a giocar con la mente e i suoi tarli
e la sera al telefono tu mi chiedevi "perche' non parli..."
Che anno è, che giorno è
questo è il tempo di vivere con te
le mie mani come vedi non tremano più
e ho nell'anima, in fondo all'anima
cieli immensi e immenso amore
e poi ancora, ancora amore
amor per te
fiumi azzurri e colline e praterie
dove corrono dolcissime le mie malinconie
l'universo trova spazio dentro me
ma il coraggio di vivere,
quello ancora non c'è.
I giardini di marzo si vestono di nuovi colori
e le giovani donne in quel mese vivono nuovi amori
camminavi al mio fianco e ad un tratto dicesti: "tu muori
se mi aiuti son certa che io ne verrò fuori"
ma non una parola chiarì i miei pensieri
continuai a camminare lasciandoti attrice di ieri.
Che anno è, che giorno è
questo è il tempo di vivere con te
le mie mani come vedi non tremano più
e ho nell'anima, in fondo all'anima
cieli immensi e immenso amore
e poi ancora, ancora amore
amor per te
fiumi azzurri e colline e praterie
dove corrono dolcissime le mie malinconie
l'universo trova spazio dentro me
ma il coraggio di vivere,
quello ancora non c'è.

mercoledì 14 marzo 2012

The sound of silence

Che magnifica canzone è "The sound of silence", probabilmente la migliore del duo americano Simon and Garfunkel, autori di altri indiscussi capolavori come "Bridge over troubled water" e "The boxer". Fu il loro primo grande successo, era infatti il lontano 1965 quando il brano uscì come 45 giri col titolo "The sounds of silence" scalando le vette della classifica statunitense dei singoli più venduti. A gennaio del '66 i due pubblicarono l'album che portava il medesimo titolo della canzone e fu un boom di vendite incredibile. Nel 1967 "The sound of silence" divenne anche la colonna sonora del film di Mike Nichols "Il laureato". Il testo di questo bellissimo pezzo colpisce per la profondità e, a pensarci bene, per il pessimismo piuttosto palese; il titolo, in italiano "Il suono del silenzio", rappresenta un ossimoro, ovvero accosta due parole di senso opposto. Del brano, furono eseguite due cover italiane, in verità di scarso valore. Riguardo al meraviglioso e ineguagliabile "suono del silenzio", c'è un indimenticabile passo del romanzo di Dino Buzzati "Il segreto del bosco vecchio", che recita così:
«Ma due o tre volte, quella notte, ci fu anche il vero silenzio, il solenne silenzio degli antichi boschi, non comparabile con nessun altro al mondo e che pochissimi uomini hanno udito».
 
 
THE SOUND OF SILENCE
(Paul Simon - Art Garfunkel)

Hello darkness, my old friend
I've come to talk with you again
Because a vision softly creeping
Left its seeds while I was sleeping
And the vision that was planted in my brain
Still remains
Within the sound of silence.
In restless dreams I walked alone
Narrow streets of cobblestone
'Neath the halo of a street lamp
I turned my collar to the cold and damp
When my eyes were stabbed by the flash of a neon light
That split the night
And touched the sound of silence.
And in the naked light I saw
Ten thousand people, maybe more
People talking without speaking
People hearing without listening
People writing songs that voices never share
And no one dare
Disturb the sound of silence
"Fools" said I, "You do not know
Silence like a cancer grows
Hear my words that I might teach you
Take my arms that I might reach you."
But my words like silent raindrops fell
And echoed
In the wells of silence
And the people bowed and prayed
To the neon god they made
And the sign flashed out its warning
In the words that it was forming
And the sign said, "The words of the prophets
are written on the subway walls
And tenement halls."
And whisper'd in the sounds of silence.

giovedì 8 marzo 2012

Marta

Correva l'anno 1974 quando il cantautore romano Antonello Venditti pubblicò un LP intitolato "Quando verrà Natale" che conteneva sette ottime canzoni, tra le quali "Marta", una delle tante che Venditti ha dedicato a figure femminili (molti ricorderanno "Lilly", "Maria Maddalena", "Sara", "Giulia"). Però "Marta" possiede delle qualità che la fanno preferire alle altre, in special modo per l'ottimo suo testo. Parla di una giovane che studia e nello stesso tempo lavora, ha una relazione con un "ragazzo che non va" e subisce le imposizioni di un genitore tiranno, che la costringe a consegnargli il suo "salario" e oltretutto pretende da lei un ottimo rendimento scolastico. Insomma Marta vive una vita intensa e complicatissima, e per tale motivo la ragazza ogni sera prega e chiede a Dio un aiuto per affrontare la difficile situazione esistenziale che sta vivendo. Rivolgendosi a Marta, Venditti probabilmente volle rivolgersi a tutte le ragazze e le donne che si trovavano in condizioni simili a quelle della giovane protagonista del brano musicale, incitandole a lottare, ad urlare con forza e con coraggio affinché potessero prevalere i loro diritti, per sconfiggere la sopraffazione, l'emarginazione e il maltrattamento di cui spesso sono state vittime le donne.
Non occorre forse ricordare che quello della canzone era il periodo post-sessantottino: periodo di grandi fermenti sociali, di manifestazioni frequenti, di continue proteste violente e determinate; era anche il periodo di massimo sviluppo del movimento femminista, che fece sentire con più forza la sua voce proprio in quegli anni '70, affievolendosi poi successivamente, fino a scomparire.



MARTA
(A. Venditti)

Prega Marta nella sera
nessun Dio risponderà
ogni giorno una preghiera
e una falsa libertà.
La giornata è stata dura
piena di contrarietà
il lavoro e poi la scuola
e un ragazzo che non va.
Urla Marta non pregare
se tuo padre chiederà
il salario o la pagella
per la sua complicità
digli di no.
Io, io non sono niente
ma ho vissuto come te
sempre chiuso nello specchio
aspettando un altro me.
Lotta Marta, nella sera,
io sarò vicino a te
amerò le tue speranze
il tuo tempo vincerà
anche per me.

domenica 4 marzo 2012

Le parole incrociate

LE PAROLE INCROCIATE

(Roberto Roversi - Lucio Dalla)

Chi era Bava il beccaio? Bombardava Milano;
correva il Novantotto, oggi è un anno lontano.
I cavalli alla Scala, gli alpini in piazza Dom.
«Attenzione:
cavalleria piemontese, gli alpini di Val di Non».

Chi era Humbert le Roi? Comandava da Roma;
folgore della guerra, con al vento la chioma.
La fanteria stava a Mantova, i bersaglieri sul Po.
«Attenzione:
fanteria calabrese, i bersaglieri di Rho».

E chi era Nicotera, ministro dell'interno?
Sole di sette croci e fuoco dell'inferno.
All'Opera il Barbiere, cannoni a Mergellina.
«Attenzione:
spari capestri e mazze da sera alla mattina».

Di pietra non è l'uomo
l'uomo non è un limone
e se non è di pietra
non è carne per un cannone.
Cavallo di re
la figlia di un re
l'ombra di un re
e la voglia di un re.
Soltanto chi è re
può contrastare un re.
Il gioco dei potenti
è di cambiare se vogliono
anche la corsa dei venti.

«E i limoni a Palermo? Pendevano dai rami,
coprendo d'ombra il sangue di poveri cristiani.
Chi era Pinna? Un questore, a Garibaldi amico.
«Attenzione:
fucilazioni in massa, dentro al castello antico».

«E la tassa sul grano? Tutta l'Emilia rossa
s'incendia di furore, brucia nella sommossa.
Stato d'assedio, spari, la truppa bivacca.
«Attenzione:
lento scorreva il fiume da Cremona a Ferrara».
Che nome aveva l'acqua trasformata in pantano?

Macello a sangue caldo di popolo italiano.
Un'intera brigata decimata sul posto.
«Attenzione:
i soldati legati agli alberi, agli alberi del bosco».

L'uomo non è di pietra
l'uomo non è un limone
poichè non è di pietra
neppure è carne da cannone.
Quando la vecchia
carne voleva
il macellaio
fu presto impiccato;
e un re da cavallo
è anche sbalzato
e in mezzo al salnitro
precipitato,
come al tempo
del grande furore
quando il vecchio imperatore
a morte condannava
chi faceva l'amore.

Sei le colonne in fila, il gioco è terminato.
Nel bel prato d'Italia c'è odore di bruciato.
Un filo rosso lega tutte, tutte queste vicende.
«Attenzione:
dentro ci siamo tutti, è il potere che offende».
 

Bellissima canzone del duo Roversi-Dalla, una delle dieci (tutte ottime) che fan parte del secondo LP nato dalla straordinaria collaborazione tra il poeta Roberto Roversi e il cantautore Lucio Dalla: "Anidride solforosa" (1975). Nel testo, scritto da Roversi, si vuole porre l'attenzione su una serie di fatti incresciosi, relativi a insurrezioni popolari e a repressioni sanguinarie, avvenuti nell'Italia del secondo Ottocento, tra il 1861 ed il 1900: praticamente nel primo quarantennio di vita della nazione italiana. Si citano, in paticolare, i seguenti episodi (in ordine cronologico):

Le repressioni nei confronti dei ribelli siciliani avvenute nel settembre del 1866 ad opera del generale Raffaele Cadorna, dei suoi ufficiali, e del questore di Palermo Felice Pinna (nominato nel testo della canzone).

Gli scontri tra la popolazione e le forze dell'ordine avvenuti a seguito dell'entrata in vigore della "Tassa sul macinato" nel 1869; tali scontri furono particolarmente cruenti in Emilia. Anche in questo caso la risposta del governo italiano fu durissima e la repressione della rivolta causò parecchi morti.

Le azioni repressive, assai violente, verso ogni forma di ribellismo sul territorio italiano, ordinate dal ministro dell'Interno Giovanni Nicotera nel periodo compreso tra il 1876 ed il 1877, durante il governo Depretis.

Le sanguinose violenze durante lo stato d'assedio di Milano nel maggio 1898, quando, per l'isorgenza di reiterati tumulti da parte della popolazione meneghina, il generale Fiorenzo Bava Beccaris ordinò all'esercito di sparare cannonate sulla folla che stava manifestando contro il governo italiano; la conseguenza fu una strage: ottanta morti e centinaia di feriti.

L'attentato al Re d'Italia Umberto I di Savoia da parte dell'anarchico Gaetano Bresci avvenuto il 29 luglio del 1900. Bresci sparò contro il Re tre colpi di pistola ferendolo mortalmente.

Tutti questi significativi episodi, accaduti dopo l'unità d'Italia, dimostrano quanto fossero difficili quei primi anni per una nazione che, nata in ritardo rispetto a molte altre in Europa, faticava non poco a trovare quei valori basilari capaci di tenere unito un popolo. L'incapacità da parte dei vari governi che si succedettero in quel trentennio, di attuare una politica giusta e di salvaguardare tutte le classi sociali presenti nella penisola, causarono molte insurrezioni popolari troppo spesso sedate con la forza. Tutto sommato la strategia del potere di allora non era poi così diversa da quella fascista, iniziata dopo qualche decennio, e che rappresenta la fase più involutiva e deprecabile della storia d'Italia.
Il testo di Roversi trae spunto da questi fatti reali entrati nella nostra storia ma poco conosciuti, per confrontarli col presente. E se si prova a fare tale confronto, si noterà che i problemi non sono poi così diversi: il malgoverno c'era e c'è stato fino a poco fa; l'iniquità di alcune tasse e di parecchie leggi recenti non si distanziano poi tanto da quelle di allora. Anche la repressione di forme di protesta (che siano violente o meno) si è dimostrata troppo severa in più di un caso recente. Insomma, la bellissima canzone di Dalla ancora oggi è attualissima e va ascoltata con molta attenzione perché, come dice il cantautore: «dentro ci siamo tutti».
 


sabato 3 marzo 2012

Alla fermata del tram

"Alla fermata del tram" è una delle canzoni che fanno parte dell'LP di Lucio Dalla: "Il giorno aveva cinque teste", pubblicato nel 1973 e che contiene dieci canzoni i cui testi furono scritti dal poeta Roberto Roversi e musicati da Dalla. Il brano in questione penso sia tra i migliori dell'opera, colpisce soprattutto l'interpretazione più che mai grintosa (quasi rabbiosa) di Lucio Dalla, bravissimo nel riprodurre quei rumori che si possono udire ogniqualvolta ci si trovi nei pressi di un tram in transito, rumori che nella canzone divengono sinistri, quasi fossero dei colpi di arma da fuoco. Il testo di Roversi è inquietante: protagonista è una persona che, probabilmente si trova davanti alla fermata di un tram, e inizia un dialogo con una donna, una signora che si chiama Speranza (forse un simbolo¹). L'argomento di cui i due parlano è l'apparente "normalità" della vita di tutti i giorni: il susseguirsi delle stagioni, degli eventi atmosferici, della nostra routine quotidiana: alzarsi, andare al lavoro, tornare a casa ecc. Ma sotto queste rassicuranti consuetudini, questo ordine apparente, si nasconde qualcosa che non è facile percepire. Un'entità superiore che decide al posto nostro, che ci fa agire in un certo modo e ci fa pensare come ha deciso che dobbiamo pensare. La popolazione, ignara e tranquilla, vive la sua vita e pensa di possedere quel bene così prezioso chiamato "libertà", ma è solo un'illusione, dietro questa fittizia libertà c'è il potere che subdolamente ci fa credere ciò che vuole: asseconda i nostri vizi e le nostre debolezze, culla i nostri sogni e i nostri desideri, e ci fa illudere che tutto stia procedendo normalmente, che la società in cui viviamo è la migliore esistente. Nessuno o quasi è consapevole dei rischi quotidiani che si corrono e moltissimi ignorano il pericolo di una devastazione imminente, che cambierà o annullerà l'esistenza di tutti gli individui.
È da sottolineare il fatto che la canzone uscì nel 1973, un anno ed un periodo particolarmente problematico e tormentato per la nostra nazione che aveva rischiato per ben due volte (nel 1964 e nel 1970) di subire un colpo di stato, che vedeva anno dopo anno aumentare una violenza sociale e politica che sarebbe sfociata di lì a poco in atti terroristici devastanti e insospettabili; a tutto ciò va aggiunta la crisi economica, quella petrolifera e le numerose crisi governative che l'Italia stava vivendo, e che inesorabilmente alzava di netto un malcontento generale allora molto palpabile. Questa naturalmente è una interpretazione personale del testo di Roversi, che non si può definire certo facile, ma che ha l'ottimo pregio di sollecitare la riflessione; in questo, oltre che nell'ottima interpretazione di Dalla, sta la grandezza di "Alla fermata del tram", come anche delle altre canzoni presenti in questo storico, misconosciuto LP.

1) Leggendo il testo si nota che di simboli ce ne sono svariati, a cominciare dal tram del titolo, per proseguire con la "probabile tempesta di vento" o "la mano di ferro" e ancora il gesto di "buttare la palla lontano" o il "camminare lungo il fiume con la mano intrecciata".
 


ALLA FERMATA DEL TRAM
(Roberto Roversi - Lucio Dalla)

Ascolti?
Mia cara.
Sembra che tutto
proceda a dovere
che dietro a ogni autunno
vada in orario l'inverno
che la neve chiuda ogni stagione di sole
che si calmi l'inferno:
ma è solo perché camminano i tram.
Ascolti?
Lo sai.
Il tuo nome è Speranza
un nome simbolico e folle
per questa vita che invece
molte luci non ha
quando è probabile a ogni momento
una tempesta di vento
o che una mano di ferro ci tocchi la spalla.
Corriamo
buttiamo la palla lontano
viviamo;
sembra che tutto proceda a dovere
che tutte le cose ricevano un nome
e noi lungo il fiume
pensiamo di andare con la mano intrecciata
o sul mare.
Ascolta...
Mia cara.
Per strada aspettiamo, guardiamo
la vita che avanza a dovere
e sembra ordinata
che non ci sia altro errore
che non esista il potere.
Ma è solo perché camminano i tram.


giovedì 1 marzo 2012

Qualche parola sulla scomparsa improvvisa di un ottimo cantautore

Certo, questo 2012 non sembrerebbe un anno fortunato per i cantanti: a distanza di pochi giorni dalla dipartita di Whitney Houston, oggi è venuto a mancare, improvvisamente, Lucio Dalla. Quanti lo avevano veduto qualche giorno fa a Sanremo, dirigere il giovane Pierdavide Carone che cantava "Nanì"! Nessuno avrebbe immaginato quel che è accaduto oggi. Io sono tra coloro che hanno apprezzato ed amato moltissime canzoni di Dalla. Ricordo che negli anni '80 cominciai a comperare delle musicassette di musica leggera, e, nella collezione che piano piano andavo componendo, quelle di Lucio Dalla avevano una parte consistente. Avevo appena cinque anni quando il cantautore bolognese si presentò al Festival di Sanremo con la bellissima "4 marzo 1943", ma ebbi comunque modo di riascoltarla alla radio, così come altre canzoni di quel periodo, tutte ottime, come: "La casa in riva al mare", "Itaca", "Piazza grande", "Sulla rotta di Cristoforo Colombo"; poi ci fu la straordinaria collaborazione col poeta Roberto Roversi, da cui nacquero due LP memorabili: "Il giorno aveva cinque teste" e "Anidride solforosa"; quindi un altro album eccezionale: "Automobili", che contiene, tra le altre, l'indimenticabile "Nuvolari". Poi Dalla dimostrò la sua bravura scrivendo sia i testi che le musiche delle sue canzoni, e ne scaturirono altri capolavori quali "Com'è profondo il mare" e "Lucio Dalla"; il primo LP comprende alcuni tra i migliori brani in assoluto di Lucio Dalla, come quello che da' il titolo all'album e "Quale allegria"; il secondo contiene "L'anno che verrà", forse la canzone più popolare di Dalla. Intanto cominciava un'altra collaborazione storica, quella tra il cantautore emiliano e Francesco De Gregori; da tale evento nacque il 45 giri con le canzoni: "Ma come fanno i marinai" e "Cosa sarà", e un LP intitolato "Banana Republic". La carriera musicale di Dalla è continuata senza perodi di crisi per altri due decenni, con pezzi che ancora tutti ricordano a cominciare da "Futura", "Telefonami tra vent'anni", "Se io fossi un angelo", "Caruso", "Attenti al lupo" e altre ancora.
La fortuna di cantanti eccezionali come Lucio Dalla sta nel fatto che in realtà non muoiono mai, perchè la loro voce continuerà ad essere ascoltata e ad emozionare generazioni su generazioni, come è avvenuto per altri cantautori immortali scomparsi prima di lui.